Credere nella realtà o sopravvivere nel dubbio?

Credere significa avere fiducia che “qualcosa” sia vero/reale e/o di valore.

“Qualcosa” è un'affermazione di esistenza reale o potenziale nel tempo.

Credere in se stessi, per esempio, significa avere fiducia nell'esistenza reale e nel valore delle proprie capacità, che esistano e che possano svilupparsi nel tempo.

Più ardua la definizione di realtà.

Requisiti del regno del reale non sono la visibilità (l'aria puo essere reale, e scientificamente accertabile è la sua presenza o assenza probabilistica, ma non percepibile visivamente) ne altre forme di percezione. Per lo stesso motivo non si può dire che sia reale ciò che si percepisce (le immagini pittoriche sono reali agglomerati di pigmenti con proprietà diversificate di riflessione luminosa, ma non sono reali gli oggetti con essi rappresentati).

Ne la somma statistica o totale di più dichiarazioni percettive può autenticare la realtà di un oggetto o di un evento (per millenni il genere umano intero, senza alcuna eccezione, ha creduto reale il movimento del sole intorno a noi).

Solo l'incrocio e la comparazione di testimonianze, misurazioni, controprove e verifiche scientifiche possono accertare l'altissima probabilità della realtà di un evento od oggetto. Ma non si può escludere, che un giorno, con una rivoluzione scientifica, si possa addivenire alla conclusione che ciò che ci appare reale e non solo apparente, reale non lo è a tutti gli effetti veramente.

La realtà della materia, ricordiamo, è legata al concetto di energia e di tempo (se due mani che si stringono non si saldano tra loro è perchè forze di coesione molecolare impediscono lo scambio di atomi ed elettroni incessantemente in movimento ma sostanzialmente soddisfatti del loro equilibrio. Ma alzando la temperatura della scena di qualche centinaio di gradi, si ottiene l'energia sufficiente a fonderle in un unica fumante poltiglia...)

Eppure, nell'esistenza quotidiana, per vivere noi ci accontentiamo di molto, ma molto di meno per dare l'attributo di realtà a qualcosa. In fondo ci basta vedere per pochissimi secondi qualcosa per asserire senza ombra di dubbio e testimoniare la sua realtà.

I “credenti” di professione o semplici appassionati, si accontentano di una piccola flebilissima luce apparsa per meno di un secondo per gridare al miracolo.

Io penso di non poter credere sostanzialmente ad alcunchè.

E penso anche, quindi, che neanchè la realtà, così come l'ho definita arbitrariamente, esista certamente, ma abbia solo un variabile grado di probabilità. L'aria ha una probabilità di esistenza prossima ad 1, e Dio prossima a 0. Quello che mi fa rabbia è non tanto poter essere sicuro che le cose che mi circondano, come la sedia sulla quale sono seduto, siano reali, quanto l'impossibilità di affermare con sicurezza l'inesistenza degli oggetti di fede delle religioni, sulla quale esse sono fondate.

In fondo il verbo “credere” ha in se il germe del dubbio, e chi crede “ciecamente” deve apparire ancora più sospetto per il suo volontario rinunciare alla seppur poco consistente prova visiva.

“Sono convinto che ...” significa solo che ha vinto le proprie resistenze al legittimo dubbio. Dubbio che a questo punto “appare” essere tra gli eventi cognitivi più “reali”.

Io non credo, penso, suppongo circa la probabile realtà di un qualcosa.

Siamo sulle sabbie mobili della probabilità, appesi al perenne dubbio.

Quale la strategia migliore per affrontare il domani?

Tuffarsi “ciecamente” nell'ottimismo e nell'illusione delle proprie forze, ed eventualmente affrontare le inevitabili delusioni, sminuendone le probabilmente reali portate e riponendo fiducia in eventi più fortunati? Volere fortemente un premio che ci appaghi e ripaghi degli sforzi che affronteremo e lottare fino al suo ottenimento? Dare alla propria esistenza un proprio senso e “sperare” che gli altri ne riconoscano il valore, o magari spendere la propria vita per il benessere altrui, per il lenimento delle altrui sofferenze, trovando ricompensa nei sorrisi e negli sguardi di chi aiutiamo? O magari, come moltissimi fanno, procastinare generazionalmente la propria scelta, scaricando il senso della propria vita sull'esistenza dei propri figli?

Oppure confidare nella “convinzione” della mancanza di un senso oggettivo, e nell'esistenza solo apparente e meramente funzionale di un senso soggettivo, nell'inesistenza probabile della stessa realtà, di qualsiasi realtà, nella svalutazione di qualsiasi “premio” a mera apparenza percettiva, da guardarsi con un occhio solo e per breve tempo e non fare nulla se non evitare ciò che probabilmente ci può nuocere? O magari coltivare quelle abitudini che sappiamo essere nocive, in un progetto tacito di autodistruzione. O infine cercare heideggarianamente di trovare il proprio senso vitale in attività mortalmente rischiose?

Penso, cioè credo probabile, che sia assolutamente indifferente il risultato della scelta, in quanto entrambe le esistenze che ne possono venir fuori, possono essere soddisfacenti, basta nel primo caso aumentare i propri desideri ad ogni vittoria e nel secondo diminuirli ad ogni difficoltà.

Non esiste, penso, quel momento nella vita che uno si volta indietro e fa i conti con la propria esistenza, quel momento lo si rimanda sempre oppure lo si ha sempre presente.

Nel primo caso la morte ci coglierà in una valle o su una vetta temporanea e l'ultimo desiderio resterà irrealizzabile, nel secondo ci troverà da sempre preparati e le correremo mestamente incontro.


 

2009-08-15

VinGro