Ninne nanne e sveglie: l’indicibile.

 

Che non arriva mai. Il respiro davanti al buio si fa affannoso, si spegne la tv anzi no. Ne si disattiva l’audio, liberandosi almeno delle idiozie della gente che parla. Le immagini rivoltanti piene di inutili colori accartocciati intorno a crani pelati e scollature dimostrative. Poi si chiudono gli occhi, il tv ancora acceso, e si ascolta. Le orecchie non vogliono chiudersi anzi si protendono automaticamente a scovare suoni al di fuori di questa camera. E puntualmente i suoni arrivano, consueti e riconoscibilissimi, maniglie cigolanti, porte sbattute qualche cane. Mai un tuono a ciel sereno, l’inaudito parlare di un marziano.

E sempre e continuamente il mio respiro, sempre affannoso. La posizione comoda e scomoda di essere buttati con le spalle su un letto e le gambe su una sedia a rotelle. Una di quelle odiose e onnipresenti sedie girevoli, rosse con l’imbottitura esaurita. Un altro cioccolatino al liquore, la paura che mi causi la compulsione. La compulsione di uscire. Il pensiero dei luoghi, la macchina in garage, le strade il cellulare che telefona all’unica donna che ancora ti cerca, quella demente ingrassata di solitudine e di farmaci e di estremo egocentrismo.

L’idea, dopo tanti suoi sms e telefonate rifiutate di andarla a trovare e di chiederle di uscire, anzi no, caricarla direttamente in auto, con il suo profumo di 30 anni fa sempre lo stesso, lavanda. E la sua voce …

La disperazione di aver scritto per mezz’ora su questo cazzo di PC e di aver perso tutto tranne l’inizio di sopra.

Che fare riscrivere cercando di ricordarsi le belle cose che m’erano venute in mente, col terrore che da un momento all’altro si perda anche questa faticosa ricostruzione, dolorosissima come si fa a ripetere cose che ti sei cavato da dentro e che non volevi neanche rileggere.

Prima di tutto ripristinare il salvataggio automatico, impostarlo ogni minuto e pure la copia di backup, che un giorno qualcosa sopravviva di questa mente torturata dalla coscienza.

 

Le ultime cose che avevo scritto erano:

come si fa ad amare se stessi se nessuno ti ama. Come si fa ad amare gli altri se nessuno di loro ti ama?

E non contento di averlo scritto, l’ho spedito via sms proprio a lei, quella di prima che mi perseguita da mesi con sms ed email e telefonate senza avere risposte. Forse stava smettendo, lei che mi era apparsa dietro la porta ed io avevo fatto finta di non sorprendermi nel trovarla triplicata di peso.

Mi ha risposto, e la sua risposta mi ha sollevato dal dubbio di averla messa in crisi. Lei mi scrive “in parte è vero, io ho una certa dose di odio contro me stessa ed anche le mie relazioni sembrano essere distruttive.”

Le rispondo ” Sei irrecuperabile, ( in precedenza un unico altro sms un mese fa in cui le rimproveravo l’egocentrismo assoluto) mi riferivo a me stesso, ma cvd (come volevasi dimostrare) non pensi che a te. Scusami adesso rispengo il cell. Notte.”

 

E se fossi anch’io egocentrico fuori misura, lamentandomi con me stesso della mia condizione da me solo procurata? Bella dimostrazione di ciò scrivere in un doc che non si leggerà.

Resta la rabbia per lo scritto andato perso, pieno di odio e rancore e altra disperazione, tasti battuti inutilmente che non hanno lasciato traccia, elettronica.

Non ce la faccio a riscriverle, anche se qualcosa ricordo, troppo penoso e la nausea mi assale.

Solo una cosa, l’immagine rivoltante della riluttanza a rileggere il già scritto paragonata a quella di guardare il proprio vomito.

 

Avevo acceso il PC e avevo scritto della fatica che mi assale vedendomi circondato di cose che invecchiano con me e che non ho più la forza di sostituire e rinnovare.

L’unica cosa che riesco, chissà per quanto, ancora a fare con qualche piacere, è scrivere, scrivere di tutto, è un modo per sentirmi in compagnia, mi vedo come le mie parole, nero sulla neve, sperduto e sensa senso e senza mai nessuno che ti guardi che ti legga. Tanti segni inutili, orme ed ombre di pensieri inutili, giusto per il gusto di calpestare la neve del foglio, il bianco della luce accecante del monitor, le dita che danzano e l’inizio di sottili dolori ai tendini, e le virgole, tante virgole, come i miei respiri, sempre più uguali a se stessi, silenziosi, taciturni, rotti da rarissimi e romantici sospiri.

Mi ero dimenticato che nella precedente stesura avevo persino parlato dell’unico motivo che mi faceva distogliere lo sguardo dalla tastiera per vedere il testo scritto, quello di immettere i rientri ad inizio periodo, senza i quali mi sembra tutto privo di volontà, un disordine involontario ed illeggibile per me insopportabile, per un come me, che non si pettina per non guardarsi allo specchio, cadere i capelli non tanto, ma la faccia, quella inespressiva di chi si guarda allo specchio, che non ha nulla da ridere, ed è convinto sempre che un giorno o l’altro invece che della stessa faccia quotidianamente ed innavvertitamente invecchiata, si trovi di fronte un estraneo, un mostro, che ci si spaventi della propria faccia, che qualcun altro si inserisca nel vetro davanti alla superficie argentata e che ti sorrida mentre tu sei serio e sfiduciato come al solito.

 

E poi, tra poco o molto, il dormire, di cui già scrissi, e sul quale ritorno solo per segnalarne la forma sempre più ripetitiva del suo farsi sonno.

Appena a letto mi metto a faccia in giù, con il viso sprofondato tra il cuscino e la parete. Dopo un po’, prima di soffocare, mi giro sullo stesso lato e li mi addormento quasi subito. Dopo mezz’ora circa che sto in quella posizione e sogno, mi aspetta il solito incubo salvabeghelli, quello che mi avvisa di cambiare posizione perché così messo mi sto ostruendo la circolazione. Del sogno al momento ricordo tutto ma non dopo e dopo essermi girato e posto in posizione di tutela circolazione, cerco disperatamente di ritrovare il file del sogno e di rientrarci, come se fosse la mia unica possibilità non di dormire, ma di sopravvivere. Inutile, non c’è verso. Se sono fortunato, ma molto, dopo un altro po’ riprendo a dormire, fino alla sveglia dell’incubo salvabeghelli che mi avvisa della pipì da fare. Altrimenti, passo ore ad occhi chiusi ed immobile inutilmente cercando di riaddormentarmi. Tutto sta ad arrivare a letto molto stanco, se sono le 4 o le 5 va di lusso. Se sono appena le due o le tre, può non andare proprio.

E’ come se per vivere si dovesse morire, e per morire-addormentarsi si dovesse soffrire-stancarsi vivendo. E’ come se. Eccome!

 

Che bello lasciare uno spazio, un po’ di spazio dopo un periodo, altro paragone di cui continuamente abuso, è quello di prendersi una boccata d’aria alla finestra, o di cancellare la lavagna per poterci riscrivere o del desiderio impossibile da realizzare di cancellare le cose che si sono dette.

 

E non perché me ne vergogni, anzi ne sarei persino orgoglioso, è solo per il fatto che le cose che ho detto e scritto non hanno mai mai mai mai mai sortito alcun effetto, è questo che non sopporto, è solo questo che mi fa pentire di averle dette e scritte: il silenzio che hanno causato. E non potrà che continuare ad essere sempre così, un continuo silenzio rotto solo dalle mie urla soffocate e simboliche. La neve del foglio che forse avevo scritto nel file distrutto dal software, una neve sulla quale mi piace scrivere i miei pensieri con lo stesso gusto col quale piace lasciare le proprie impronte sul foglio bianco, quella neve che adesso ho riportato alla luce del monitor accecante, adesso è diventata un paesaggio di ghiaccio freddissimo dove vado urlando la mia vita senza ottenere risposta e facendo persino fatica a sentire la mia voce, per il troppo freddo che mi circonda, per il troppo vento nel sole spento dell’antartide.

 

Adesso mi sono ricordato parte di quello che avevo scritto e che aveva dato origine al titolo, non posso non provare a riscriverlo.

La musica e l’intrattenimento in genere che si vede è tutto un ninne-nanne o sveglie, brani consolatori e soporiferi o urli disturbatori, come se ci si ispirasse al ciclo sonno-sveglia e si tralasciasse tutta la parte della veglia, dove le cose succedono per davvero, senza ordine e volontà. Ma c’era dell’altro, perso forse per sempre, magari non era nulla di che, come tutto questo.

 

Ho fumato una sigaretta e non mi sono accorto di averla famata, o meglio mi sono accorto di averla fumata solo quando ne ho riaccesa un’altra, fatto che mi ha ricordato la precedente identica operazione. Chi non fuma non sa cosa si perde, chi fuma potrebbe anche non capire, convinto che questa descritta sia la normalità della ripetizione dei gesti legati al fumare. Invece no, la scrittura mi ha catturato finalmente la mente così tanto che sono riuscito a cancellare il rito della sigaretta e l’odio per la ripetizione, un respiro profondo adesso, mentre la sigaretta giace nel posacenere sperando nelle mie labbra, e continuando nell’attesa a fumarsi da sola.

E le ginocchia, e, ne vogliamo parlare delle ginocchia di chi sta seduto prono sulla tastiera, e la schiena, e l’incessante rumore delle ventole del PC?

Ma chi se ne fotte di questo e di tutto, se stai solo, potrebbe dirmi qualcuno, ci sarà un perché! E non dovrebbe essere difficile capire quale, visto le cose che scrivi e che quindi pensi. Altro che demente ingrassata, sei un vecchio consumato dalla noia di te.

 

Quando bevevo c’era gente intorno a me e se non c’era la cercavo e se non la trovavo continuavo a bere e qualche volta, anzi spesso, a scrivere e disegnare, come se le parole che dicessi costruissero l’orecchio e la mente dei miei ascoltatori, cioè come se bastasse parlare, anche al vuoto, al muro, per farsi ascoltare o per avere la sensazione, l’illusione che qualcuno ci ascolti, ci guardi, mi ascolti, mi guardi, volevo dire. E’ brutto brutto rendersi conto di ciò, scrivo per illudermi di essere letto, “pubblico” sul mio sito per illudermi di essere visto, magari non subito, tra qualche anno, quando non ci sarò più. Devo ricordarmi di pagare una decina d’anni anticipati del sito, prima di morire. Ma tanto, che mi frega a quel punto. Anzi. Non ti urterebbe da morire sapere di essere letto, cercato, magari addirittura valutato proprio dopo morto? Una rabbia venirlo a sapere all’inferno. Dove tra l’altro ci si accorge con somma sorpresa che dio esiste ed è proprio come nella commedia di dante, un contrappasso malevolo da farabbutti. Io condannato a guardarmi allo specchio e a non trovarmi mai riflesso, o chissa cos’altro, magari ancora immerso di immagini di bellissime donne, che guardano altrove, o peggio costretto a restare completamente vestito e sudare nel fuoco, mentre gli altri sono tutti nudi, o essere cosciente all’ennesima potenza di tutto e di più ma non poter avere la benchè minima forma o sostanza o sembianza, vagare invisibile tra gli altri condannati. Sapere tutto, tutto conoscere e non essere, non esistere in alcun modo. Questa si che sarebbe la condanna degna di un dio quale in effetti sono.

 

La sigaretta, lasciata a masturbarsi, si è consumata restando impiccata per il filtro.

 

Dio si sgranochhia le ginocchia e si disdita le dita, raschiandosi la schiena.

 

… poi queste frasi mi sono piaciute e le ho trasformate in una poesia “Dio all’inferno”.

 

(18-01-2008)