NON CAPISCO, MA VOGLIO CAPIRE.
[PREMESSA]
Se vi sentite “ignoranti” o non capite quello che scrivo saltate alla parte “Le stesse cose con maggiore semplicità”
Capita di incontrare ancora, nonostante la scolarizzazione di massa degli anni ‘50-‘60, chi per motivi di famiglia o desideri legittimi di produrre presto un proprio reddito di sussistenza, abbia abbandonato la scuola.
Non ci interessano statistiche e personalismi, ne tanto meno disloquire sulle croniche deficienze del sistema didattico italiano. Qui voglio mettere in evidenza un comportamento che può radicarsi in tali persone, comportamento per essi stessi dannoso e che si può a mio avviso facilmente, anche se con uno sforzo costante, correggere.
Parlo della cultura generale, quella scolastica dell’obbligo, fatta di nozioni sui linguaggi, le storie e le geografie.
Sapendo che in una conversazione sia pressoché inevitabile che ignoranze di nozioni elementari vengano presto o tardi fuori, e soprattutto che “l’ignorante” non possa logicamente accorgersene, questi mette presto le mani avanti, confessando la propria mancanza anche con l’obiettivo di trovare indulgenza nell’interlocutore e tenere basso il livello della conversazione.
Ebbene tutto ciò non è bene per nessuno, anzi è un danno che si perpetra nei confronti “dell ignorante” e una mancata occasione di imparare qualcosa per il “dotto”.
Eppure basterebbe veramente poco, inizialmente, per uscire da questa situazione mista di ipocrisia caritatevole e stucchevole saccenza: rendersi tutti socraticamente conto di non conoscere tutto ed anzi praticamente nulla e tentare da ambo le parti, con umiltà e amore, ad illuminare le reciproche ignoranze.
Il linguaggio verbale colto, tra iniziati alla letteratura e alla saggistica mondiale storica e recente, di solito tende alla sintesi, per non apparire prolisso e per andare immediatamente allo scambio di idee secche, delle quali si danno per scontate le premesse. In simili circostanze chiunque è a rischio di ignoranza manifesta, d’obbligo un continuo annuire e sorridere, che involontariamente incoraggia l’interlocutore ad aumentare i salti logici e le omissioni, nella convinzione, il più delle volte in buona fede, che l’ascoltatore abbia capito già quello che si sta per dire e si cerca quindi di approfondire ulteriormente il proprio pensiero, fino ad azzardare ipotesi ed estrapolazioni che possano essere meno intuibili da esso. Un vero e proprio spronare un cavallo a saltare la staccionata della cortesia e a rendersi odioso, ma ammirato levriero della gara ippico-faustiana.[1]
Io pratico e suggerisco una nobile e filosofica condotta: interrompere continuamente l’interlocutore con la domanda “In che senso?” oppure, secondo il caso, “Cosa intendi dire con …?”
Se l’interlocutore, si blocca a bocca aperta, magari sgranando gli occhi e poi guarda da un’altra parte, per nascondere il proprio divertito imbarazzo nel sapere che noi non si sa la tale cosa, salutatelo cortesemente e sceglietevi un’altra occupazione od un altro dialogo: lui di certo non merita la vostra attenzione e le cose che può dirvi non hanno di certo alcuna importanza.
Al contrario, se senza esitazione il parlante tenta di spiegare con parole meno criptiche il contenuto appena esposto, fate anche voi lo sforzo di seguirlo e non ve ne pentirete, un piccolo nuovo mondo potrebbe dischiudersi alla vostra mente.
“Le stesse cose con maggiore semplicità”
C’è chi per un motivo o per un altro non ha studiato molto.
Una parte di responsabilità è della scuola, ma qualcosa avreste potuto fare e potete ancora fare per rimediare. Però è necessario un po’ di impegno e di fiducia in chi ci parla.
Se continuate a mettere le mani avanti dicendo “Non ho potuto studiare perché dovevo lavorare, o avevo una famiglia” ottenete solo un inutile compassione e una possibilità in meno di provare il piacere di pensare a qualcosa di nuovo per voi.
Un grande pensatore greco, Socrate, vissuto prima di Cristo, sosteneva di non sapere nulla.
“Io so solo una cosa: che non so niente!” Diceva questo filosofo, non perché non avesse studiato, ma perché aveva capito che le nostre conoscenze sono limitate all’apparenza ed ai nomi delle cose. Noi crediamo di conoscere la geografia dell’Italia, ma in realtà ricordiamo solo dei nomi di città e regioni che spesso non abbiamo mai visitato. E per conoscere veramente le cose, bisogna farle, vederle, vivere le cose.
Quindi tutti siamo ignoranti, perché non “sappiamo” veramente le cose che nominiamo, cioè che chiamiamo per nome.
Capito questo, adesso dovrebbe essere più facile rimettersi allo stesso livello di chi ci parla, fosse anche un professorone: anche lui è un ignorante. Non dobbiamo sentirci inferiori, perché tutti sappiamo qualcosa e non sappiamo tutto il resto. C’è chi sa per esempio tutto ciò che c’è da sapere sul lavoro che svolge da venti o trent’anni; sa come si cucina un particolare piatto o come si cura una pianta. Il professorone quasi certamente è ignorante di tutte queste cose, e queste cose, la cucina, il giardinaggio o il nostro mestiere, non sono affatto meno importanti della “sapienza” del professore. Senza queste conoscenze di qualcun altro come voi, rischierebbe di morire di fame e di sete. Come farebbe a mangiare se qualcuno non cucinasse per lui?
Se questo “professore” è veramente tale, cioè se sa insegnare bene, allora sarà capace di dire le cose che sa e che vuole dirvi, nella maniera più semplice possibile e senza fronzoli. E sarà contento di spiegare anche ogni parola a voi indigesta. Questo suo “piacere” è dovuto al fatto che solo spiegandosi il più chiaramente possibile riuscirà a dimostrare di conoscere veramente le cose che dice e non per sentito dire.
Però sta a voi, ogni volta che non capite una cosa, fare il grande sforzo di chiedergli che significa, semplicemente, senza vergogna. Vedrete che a poco a poco le nebbie delle parole difficili svaniranno e un piccolo mondo nuovo inizierà ad apparire davanti a voi.
Adesso, se volete divertirvi, provate a leggere o rileggere la parte iniziale.
Vincenzo Grossi
2008-07-24