BLUE MOVIE (1978) – Scritto diretto e montato da Alberto Cavallone dur. 1h 21’

Danielle Dugas (Silvia la donna inseguita)

Claude Maran (Claudio il fotografo)

Joseph Dickson (il “negro”)

Patrizia (Dirce) Funari (Leda la vagabonda del bar)

Leda Simonetti (Daniela la modella)

Giovanni Brusatori (Il barista)

 

fotografia Maurizio Centini

Musiche: J. S. Bach, J.Offenbach, S. Joplin

BLUE

MOVIE

 

Scarica una copia del film, copia integrale degradata a norma di legge solo dalla censura, dal tempo e dalla compressione in formato AVI del peso non indifferente di ben 775 Mb!!

 

Trema

 

I titoli di testa sono sovrimpressi su strisce di diapositive delle foto di scena del film che riempiono lo schermo. Inizialmente accompagnate dai rumori di scatti fotografici (tipico suono delle reflex analogiche, con specchietto del mirino che si abbassa al momento dello scatto). Poi gli scatti vengono intervallati regolarmente da spari di pistola (colt a tamburo, suono tratto da raccolte di suoni cinematografici di western spaghetti, con relativo fischio riverberato stile grand Canyon).

 

            Silvia è in uno “strano posto” a suo dire, “un posto senza legge se non quella che creiamo noi” nella fattispecie un anfratto roccioso, spacciato come rovine di un villaggio abbandonato, vestita con leggera e trasparente camicetta. Alle sue spalle un giovane uomo con in testa una calza di nylon la palpeggia scoprendole i seni. Quindi la obbliga a muoversi. Si intuisce che i due sono usciti insieme, lui con l’intenzione di violentarla, lei si difende debolmente, chiedendogli di andare a casa sua. E lui “Lo spettacolo incomincia” (Toccata e fuga in re minore BWV 565). Un volto si specchia in una lastra di metallo curvata in fuori e poi in dentro e viceversa di seguito. Quest’immagine tornerà spesso nei momenti di maggior tensione ed azione violenta.

 

            Montaggio parallelo di una Mini-Cooper Innocenti del ’74[1] rossa con radio che trasmette Bach e lei che fugge nei campi (non inseguita). Lei arriva sulla strada chiedendo di portarla via all’autista della mini rossa (Claudio), perché inseguita. (La camicia è visibilmente strappata lasciandole i seni in vista). “Chi sei?”le domanda e lei: “Non so, cioè so chi ero stamattina, ma credo di essere cambiata diverse volte da allora, mi porti via”. Lui la porta a casa sua o meglio nel suo studio fotografico, le accende una lampada in faccia e le chiede di raccontare cosa l’è capitato. Lo studio ha un arredamento bicromatico bianco e rosso.

Lei gli racconta di aver accettato un passaggio da una macchina con dei ragazzi sconosciuti che hanno abusato di lei. E’ scappata ma uno con una maschera bianca l’ha raggiunta e lei l’ha colpito con un sasso e poi è arrivata in strada. Lui dubita ma la esorta a continuare, mentre armeggia con le macchine e le lampade da studio.

Lei dice di sentirsi ancora minacciata dagli altri due e gli chiede di nasconderla, tentando di sedurlo accarezzandone la patta dei pantaloni. Lui le consiglia la polizia, ma lei ha paura di non essere creduta (!). Lo bacia, lui la scansa e poi la conduce nell’abitazione sovrastante. Si presentano e lei gli confessa di aver ammazzato l’uomo che amava, riamata nel suo strano modo. Lui non le crede ma la conforta indicandole dove dormire e se ne va di casa chiudendola a chiave dentro.

 

Claudio scende nel suo studio a lavorare con una modella di nome Daniela, dalla faccia inespressiva.

La cartuccia audio (uno Stereo8 [2]) inserita in un Brionvega tondeggiante rosso) suona un rag-time di Joplin[3]. Claudio la continua ad insultare e poi apre un frigo pieno solo di lattine di coca cola rosse, ne stappa una ne beve un po’ e poi la offre alla modella.

 

Silvia perlustra la casa, vede delle piccole bambole in vasetti di vetro ed una chiave, ascolta la musica e si accorge di non poter aprire la porta perché chiusa da fuori, cerca di aprirne inutilmente un’altra di uno sgabuzzino. Riesce ad aprire solo un ripostiglio nel sottoscala, dal quale precipitano, investendola, lattine vuote di coca-cola. Sale la scala, apre un frigo e trova altre lattine di coca e tre pacchetti di Marlboro[4]. Le apre una alla volta tutte e tre e disgustata dall’odore le rigetta dentro.

Versa il contenuto di una lattina in un bicchiere, lo beve e lo sputa nel rubinetto.

 

Nello studio il fotografo ordina alla modella di spogliarsi e di mettersi sul divano. Nudo anch’egli le si avvicina giocando con un una lampada a spot sul suo corpo.

Indugia prima sui capezzoli, poi sul pube e quindi sulla bocca, al suono della musica di Offenbach (un operetta). Quindi sempre con lo spot la indirizza ad un rapporto orale (coperto dallo stesso spot). Dopo l’orgasmo recitato dal volto di lui, lei: “Ti amo” e lui schiaffeggiandola “Sei una povera stronza”.

 

Nell’abitazione [5] Silvia si sdraia sul letto. Ma in parallelo si vede prima la chiave di cui sopra, poi la serratura chiusa dall’esterno che si apre, poi le bambole nei vasetti, che prima erano “nude”, adesso vestite, quindi la chiave con incastonato un’occhio, poi i 2 vasetti con un bambolotto fuoriuscito da uno di essi ed appoggiato all’altro, ancora con imprigionato una bamboletta. (L’occhio adesso è nel vasetto rimasto vuoto del bambolotto evaso).

 

Claudio va al bar per ritirare le lattine di coca vuote messe da parte dal barista.

Silvia si riaddormenta sul letto. Il barista, indicando una ragazza seduta ad un tavolo dice a Claudio che l’ha trovata stamattina sul marciapiede, che non puo pagare e sta aspettando un amico.

 

Silvia sogna di essere ancora in fuga nel bosco, nuda ed inseguita da un uomo nudo di cui non si scorge il volto.

 

 Claudio si siede al tavolo della vagabonda prende anche la sua lattina vuota e le chiede se aspettava lui per pagarle il conto della consumazione

 

Silvia dorme, la porta dell’abitazione si apre ed entra un uomo nudo che prende il bambolotto evaso e lo rimette sotto vetro insieme all’occhio.

 

La vagabonda (Leda) racconta a Claudio che il suo paese è stato distrutto da un terremoto e lei non ha voglia di contribuire alla ricostruzione per non ripetere gli stessi errori.

 

L’uomo nudo sale le scale mentre Silvia continua a dormire. Nel dormiveglia lei (in soggettiva) lo vede avvicinarsi, con una maschera bianca che gli copre il volto e la mano protesa. Con montaggio a sovrapposizione, la maschera bianca appare una volta calza di nylon, un’altra quella di Claudio. La tocca lei cerca di sfuggirgli … è solo un incubo: Claudio la sta toccando per farla svegliare, le ha portato una camicia pulita per cambiarsi e le indica il bagno dove lei va e si spoglia. E’ ancora coperta di graffi e sporca di sangue.  Apre il rubinetto della vasca blu, dal quale esce, non visto da lei, un liquido rosso che la riempie.

Claudio osserva, maneggiandolo, il vasetto del bambolotto evaso. Silvia si lava il viso e raccoglie i capelli apprestandosi ad immergersi nella vasca. Dalla vasca blu ormai piena di liquido rosso spunta una mano. Lei si volta verso la vasca e la mano le agguanta la sua mano. Grida aiuto, Claudio la sente e corre da lei in bagno, ma resta chiuso fuori durante la lotta per divincolarsi dalla mano nella vasca di sangue. Lei è svenuta, o in trance, appoggiata ad una vasca piena d’acqua chiara, poi in un'altra inquadratura, la mano scompare nella vasca insanguinata.

 

Claudio si è portata in casa la vagabonda e le fa assistere alle sue fotografie di barattoli “Non significano niente. Da una scatola di latta non ti aspetti niente ed è bella per questo”. Lei lo ringrazia di averle pagato il conto al bar e si offre come cameriera e come modella di nudo per guadagnare qualche soldo. Lui trascinandola le lava brutalmente il volto per struccarla.

 

Silvia fa un solitario con le carte, squilla il telefono chiede il nome e dice “Si sono io”, al suo ritorno un uomo nudo le ha lasciato sopra le carte delle sagome di carta di bambole.

Quest’immagine le fa riemergere (o immaginare) il ricordo della violenza subita nel bosco, da qualcuno che adesso sembra essere Claudio, che la spinge verso un ramo dalle sembianze falliche. La spinge da dietro, ma non è chiaro se la penetra.

 

Claudio seduto sul divano e ascoltando “Alice nel paese delle meraviglie” fascia con della garza una bambolina “nuda”.

Silvia, di nascosto, con un coltello preso in cucina forza ed apre una porta chiusa. Il rumore provocato insospettisce Claudio costringendola a richiudere la porta e fuggire a letto. Claudio si accorge della porta forzata e sorride.

 

Leda, in veste di segretaria centralinista dello studio fotografico, intenta ad un cruciverba risponde al telefono.

Arriva un nero alto con un lungo collo ed una borsa di cuoio, cerca una ragazza bionda che gli hanno detto essere stata vista entrare nel suo studio. Dice che è una sua amica, matta completamente, bianca ma non sa descriverla perché non guarda mai i bianchi e, tra l’altro, preferisce gli uomini. Claudio non gli crede ed asserisce che i suoi barattoli sono più sinceri, perché non hanno nulla da nascondere, sono vuoti. Narra di aver iniziato il mestiere di fotografo stampando foto di inviati di guerra (vietnam) , le stesse foto (diapositive) che Silvia sta guardando in casa, trovate insieme al proiettore nel ripostiglio forzato con il coltello.

Claudio si tradisce pronunciando il nome di Silvia con il nero. A questo punto questi posa per terra la borsa e se ne va facendo notare a Claudio di non avergli detto il nome della ragazza che cercava. Le diapositive diventano il celebre filmato del bonzo che si da fuoco per protesta.

Le fiamme collegano la scena visionaria di un sipario di giornali che bruciano scoprendo un corpo sdraiato (Claudio), in un sudario bianco e circondato di barattoli di Coca, carte da gioco e bambole. Inginocchiata Silvia nuda bacia Claudio sdraiato. Si avvicina il nero anch’esso nudo e lei, con sul ventre disegnato un grande ragno, lo bacia.

 

Claudio apre la borsa lasciata dal nero e ne trae fuori macchine fotografiche, lattine vuote e bambole.

 

Silvia chiude lo sgabuzzino e viene scoperta da Claudio che la rimprovera per averlo aperto. “Io solo sono il padrone del mio passato e decido se e quando confessarlo” La schiaffeggia e le ordina di rimettere a posto le dia, ma pretende che lo faccia portandole in bocca e a quattro zampe come un cane. Lei non ci sta e lui se ne va chiudendola dentro.

 

Claudio in auto incontra Daniela e scherzando con la sua permalosità “Sei migliorata, hai un barlume di intelligenza, ma non preoccuparti, solo un barlume” la convince a venire allo studio. Nello studio Daniela è nuda sul pavimento e viene rivoltata con i piedi da Claudio, come un oggetto.

Daniela gli chiede di trasformarla, perché non si sopporta più così, inespressiva e lontana dalla realtà. Lui le promette di trattarla come un barattolo, a patto che lei faccia tutto quello che le chiederà.

Viene chiusa in uno spazio tipo abitazione tradizionale giapponese con porte scorrevoli e tanti barattoli vuoti. Inizia il dominio di Claudio con l’educazione di Daniela: per mangiare un biscotto deve masturbare Claudio. Questa volta l’atto sessuale è ben visibile anche se con rapidi montaggi e inversioni di inquadratura.

 

Claudio prepara il set fotografico con delle bambole smembrate. Arriva Leda che gli porta un caffè e lui la inserisce nel set come “un altro oggetto” mettendole in bocca mezza bambola. “Hai la faccia come il culo di questa bambola”.

 

Claudio e Silvia guardano alla TV una comica anni ’20. Persino in questa innocente visione, Silvia rivede le immagini della sua fuga inseguita dall’uomo mascherato con la calza. Prende in mano un soprammobile fatto da due mani e si vede presa, nuda nel bosco, dalle mani del suo inseguitore. Poi le mani diventano di più, le agguantano l’inguine nudo e i seni e la bocca.

Davanti al televisore Silvia prende Claudio per mano portandolo a letto, per poi scusarsi nel non riuscire a fare l’amore con lui, pur avendone voglia. Gli chiede perdono per aver visto le sue foto e lui le dice che un giorno le potra vedere ed “avrai tutte le carte in mano per potermi conoscere e giocare tranquilla”.

Scende nello studio ma dalla porta vede Leda che fa l’amore con il nero (fellatio e penetrazione hard core, appena visibile, da uno scarto della pellicola si intuisce un taglio di censura). Claudio resta per un po’ a guardare poi richiude la porta.

Daniela, sempre prigioniera volontaria, scambia del tonno in scatola con la propria urina riversata da un recipiente in vetro con un imbuto in una lattina vuota di CocaCola. Vorrebbe rinunciare e riavere la libertà ma Claudio gliela nega invocando il patto.

 

Claudio esce con Silvia per fare delle foto, inframezzate da riprese della guerra nel Vietnam. Silvia “Mi vuoi imprigionare anche nelle tue fotografie”. Adesso le macchie [6] di guerra sono sempre accompagnate dagli spari di pistola come nei titoli.

 

Leda offre nello studio un caffè al nero. Claudio gli riporta la borsa, il nero dice di essere li per Leda e Claudio gli rimprovera di avergli detto di preferire gli uomini.

Il nero apre la borsa e ci trova un teschio.

 

Claudio osserva, fumando Marlboro, Daniela che, sempre nuda e prigioniera, defeca in un bagno turco, raccoglie le feci e le inserisce in 2 pacchetti vuoti di Marlboro. Si siede ed aspetta Claudio per lo scambio. Dopo lo scambio Silvia dice a se stessa :“Che stronzo, una sigaretta sola per due pacchetti di merda, un vero sfruttatore”.

 

Da notare che fino ad adesso le tre donne che frequentano la casa, tutte ospitate 24h, tra loro non si sono mai viste. Leda riferisce a Claudio di aver sentito dei rumori. Lui nega ci sia qualcun altro.

 

Silvia riferisce di aver visto il nero, chiede se è venuta a cercarla e che cosa gli ha detto: nulla. Claudio si arrabbia perché Silvia è andata allo studio (seminterrato dell’abitazione) trovandone la chiave, nell’alterco Claudio si ferisce con un vetro della bottiglia di Silvia ubriaca. “Non sono la tua schiava” “Non sono stato io a cercarti, ti ho solo aiutata”. Lei vomita. Gli ordina di portargli il nero. Continua a vomitare e bere. Il nero le rinfaccia di essere rimasta quella che era, “un ubriacona capricciosa e convinta di avere tutti ai suoi piedi”. I due si sono amati, lei gli chiede di aiutarla a liberarsi da Claudio, che l’ha si salvata ma ora la tiene prigioniera. E’ disposta a pagarlo e tira fuori dal taschino della camicia delle chiavi lasciandole cadere nella pozza di vomito.

 

Claudio continua a fare le sue fotografie di oggetti, Leda lo fotografa, lui prima riluttante poi si lascia fotografare da Leda. Il nero è presente ma non partecipa.

 

Daniela viene fotografata mentre nuda si cosparge il corpo di feci. Altre macchie della guerra in vietnam e dei campi di sterminio nazisti. Alla fine Claudio lascia del cibo in scatola e dei wurstel sulla porta rimasta aperta. Daniela varca la porta, poi si ferma, raccatta il cibo ancora coperta interamente di merda e se lo porta vicino al piatto turco, dove li scarta e li mangia. Continuano le immagini della Shoah con cadaveri e corpi scheletrici per la fame.

 

Claudio si è addormentato davanti alla TV, Silvia si sveglia e sta per colpirlo con il soprammobile a forma di mani, poi ci ripensa e gli sfila le chiavi dalla tasca. Apre la porta e scende nello studio, dove Daniela si è addormentata sporca come prima. Le lega le mani dietro la schiena e la soffoca con una busta di plastica intorno alla testa.

Poi torna in casa, sveglia Claudio con uno schiaffo e gli dice di sapere tutto di lui adesso, che è una nullità come lei, vuoti entrambi, di volerlo scopare. Adesso è lei che decide e lei che parla e lui non può farci niente.

A letto: dormono, lei si alza senza svegliarlo, scende le scale, apre il solito ripostiglio, dal quale esce una forte luce ed un braccio che cerca di ghermirla. Lei: “Sono io che decido, non toccarmi, sono io la padrona del mio corpo”. Le urla svegliano Claudio che la insegue cercando di farla ragionare. Leda, nuda, li fotografa entrambi nudi per le scale, aprono una porta investiti da luce rossa e barattoli vuoti. La lotta tra i due si trasferisce nel bosco, tra le rovine dell’inizio, dove Claudio (adesso sappiamo che era lui, almeno nella mente di Silvia), cerca di violentarla. Lei prende un sasso e lo colpisce ripetutamente al cranio. Il sasso si trasforma nel cranio regalato al nero nella valigia, e con questo cranio Silvia continua a colpire Claudio alla testa. Claudio (finalmente) sviene (o muore) ricoperto di sangue, lei gli chiede se è morto.

Ritorniamo nello studio, senza interruzioni, come a continuare la scena, dove lui appare a lei insanguinato e lei a lui insanguinata. Non si capisce se scherzano ma lei ha paura. Poi lei gli dice “Non puoi farmi niente, ti ho già ucciso, posso ucciderti tutte le volte che voglio” e lo strozza con un cavo elettrico .

 

Di nuovo, come detto all’inizio, Claudio (adesso lo riconosciamo), si specchia nella lastra curvata in dentro e fuori, all’interno della camera oscura del suo studio fotografico. Solo adesso si capisce questa inquadratura ricorrente, in quanto lo si vede non solo attraverso l’immagine riflessa ma a campo intero, dall’esterno. E’ vestito e pare in ottima salute.

Raccoglie delle foto di Daniela, Silvia, Leda e sue (fatte da Leda). Esce dallo studio.

Lo ritroviamo in un bosco dove brucia le foto prese nello studio chiamandole per nome “Daniela, Leda, Silvia”

Il crepitio del legno che brucia serve a trasportarci in casa dove …

…Claudio giace sulla poltrona con un foro di proiettile alla tempia, la pistola per terra.

Nel caminetto (continuano?) a bruciare le fotografie e la voce a ripetere i nomi delle tre donne, ma questa volta si aggiunge la sillaba “Io”, che viene ripetuta con riverbero crescente ed interrotta solo dalla musica di Joplin.

 

Recinzione

 

Credo che la prima domanda che ci si debba sempre fare rispetto all’operare umano, sia non cosa abbia l’autore fatto, ma cosa intendeva fare. Solo dopo, potremo azzardare un giudizio gratuito ma ponderato sul fatto che a nostro avviso ci sia più o meno riuscito.

Questa cautela me la pongo in maniera così esplicita proprio e solo per questo film, che, come i pochi film degni di nota della storia del cinema, ci pone ad una, almeno apparente, profondità di ricerca intellettuale. Intendo dire che sin dall’inizio non appare un film mainstream ma neanche un b-movie.

Per capire le cose di questo mondo, e soprattutto dell’altro [7], ci viene spontaneo cercare nella nostra mente non tanto i possibili modelli o forme di riferimento, quanto piuttosto le categorie di appartenenza, categorie lessicali, tramandateci da generazioni di speculatori. E’ un po’ come la ricerca dell’autenticazione e sicura attribuzione di un dipinto, dove non si cerca nei quadri sicuramente di mano dell’Autore, le forme ed i colori che lo contraddistinguono, ma bensì i particolari calligrafici di minor importanza, dove l’Autore, quasi certamente, ha lasciato andare alla consuetudine il suo muovere il pennello. Nello stesso modo in cui l’Autore si tradisce inconsapevolmente nel dipingere le volute delle orecchie, così noi cinefili da pochi fotogrammi siamo tentati di classificare un film nei generi consolidati. Se una nudità ci viene proposta per più di 4-5 secondi siamo tentati di pensare di essere di fronte ad un film erotico, se ad essere scoperto è l’organo genitale maschile in erezione, il film erotico scade (o assurge) a film hard (core).

Ebbene in questo film, dal titolo “Blue movie”…

… Andy Warhol nel 1968 girò un film, o meglio riprese un uomo ed una donna fare sesso, e lo titolò “Blue Movie” o più probabilmente “Fuck”. I blue movies erano i film erotici, e dovevano il loro nomignolo al colore della loro copertina, scatola (pellicole in formato ridotto, 8 e 16mm). Nel film di Warhol, le scene di sesso erano inframezzate da dialoghi sulla guerra in Vietnam. Tale film fu sequestrato in una delle poche proiezioni nell’anno seguente, con arresto dello staff del teatro (Garrick Theatre). Quindi, presumibilmente, in pochi l’hanno visto ma forse in molti sapevano della sua esistenza. Tra questi certamente Alberto Cavallone, che 10 anni dopo in qualche modo volle ridar luce ad un progetto di Warhol o rendergli semplicemente un omaggio.

… “Blue Movie” di blu non c’è nulla, visto che il colore dominante è senza dubbio il rosso (la Mini Cooper, le pareti dello studio, il liquido della vasca, il sangue, le luci degli incubi etc.). Ma certamente, dagli spettatori del tempo e dal produttore e distributore, potè tranquillamente essere scambiato per un film porno.

Torniamo quindi alla nostra prima domanda, e riformuliamola in questo modo: è un film porno? Cioè destinato ad un pubblico di soli adulti, con l’intento esplicito di solleticarne la libido?

Ebbene, i sostenitori di questa affermazione, di certo il produttore e la distribuzione, avrebbero molti motivi per classificarlo tale, vediamone alcuni:

·  Caratteristica dei film porno, sia soft (nudi integrali ma scene di sesso simulate), sia hard (scene di sesso reali), è la divisione programmatica del film in sequenze, ogni sequenza contenente una o più scene di sesso, magari in montaggio parallelo, ha un’inizio di tipo recitativo dove si finge di narrare una storia, con dei protagonisti ed una trama. Ebbene questa caratteristica è perfettamente rispettata in “Blue Movie”, ogni sequenza contiene una scena di sesso o comunque di nudità, e la trama ed i personaggi sono evidenti.

·  Altra caratteristica dei film erotici, è la creazione di tensione verso la seguente scena di sesso, che però in qualche modo deve o vorrebbe cogliere di sorpresa lo spettatore. Caratteristica anch’essa a mio avviso rispettata in Blue Movie, sebbene aleggi sempre nell’aria il calore della situazione, non sappiamo mai fino a che punto ci si spingerà e quando scoccherà la scintilla del momento clou

·  Ogni sequenza di sesso nei film erotici o porno si conclude con l’orgasmo dei partecipanti, cioè non si sfuma mai nel caminetto con la consueta metafora dei film romantici della passione bruciante ma troppo intima per poter essere rappresentata. In Blue Movie il protagonista maschile raggiunge per ben due volte tale apice, splendidamente sottolineato dalla musica di Offenbach. Viceversa solo Leda pare gradire esplicitamente ed intensamente la copula. Da notare che paradossalmente lo sfumo nel caminetto romantico c’è ed è l’inquadratura finale del film, dove però a bruciare non sono le metafore della passione ma qualcos’altro.

·   Nei film erotici, le nudità dei personaggi, anche nelle brevi scene di transizione, non appaiono mai casuali, ma ben inquadrate. In Blue Movie le attrici raramente appaiono completamente vestite, quasi mai, ad eccezione del Bar e di poche altre scene. Anche una minima trasparenza o scollatura c’è quasi sempre. E le inquadrature non tagliano mai, come capita nei film tradizionali, le superfici erotiche dei seni (i capezzoli) o delle natiche (l’attacco delle cosce) o dei ventri (il pube, come era allora di moda non depilato se non sulle cosce)

 

Credo ci siano sufficienti caratteristiche rispondenti ai requisiti per scadere-assurgere al genere erotico e molti per rientrare nell’hard core, si pensi alle due fellatio e alla masturbazione del membro eretto. Per avere scene simili in un film mainstream bisogna attendere il 1986 con Il diavolo in corpo di Bellocchio dove la Dertmers viene filmata in una fellatio di un membro parzialmente eretto. Queste scene hard, del tipo incidentale, cioè necessarie alla storia e quindi spesso ma non sempre sdoganate dalla censura, sono oggi sempre più presenti nei films mainstream, e sempre meno necessarie alla narrazione, se non come metafora di liberazione sessuale dei protagonisti, del regista o perfino del pubblico.

Nel film “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci (1972), la scena di sesso anale, pur realisticamente, era solo recitata e simulata. Talmente bene da meritare lo stesso il sequestro del film, come molti diranno più per l’inedito attacco alla chiesa e al ruolo centrale della famiglia dei dialoghi, che per il dito imburrato.

In Blue Movie, ciò che lo consegnerebbe definitivamente alla categoria della pornografia sono le sequenze coprofile, dove l’aranciata, o limonata e la cioccolata o altra leccornia vanno a ricoprire e saziare la sete delle protagoniste. Questo genere di scene è decisamente hard, tanto hard da essere molto raramente presente nei film di settore, se non su di esso specificamente incentrato (vedasi la recente produzione brasiliana e tedesca e ancor più recente greca),

 

Allora siamo di fronte ad un film porno, un film erotico, anzi hard-core, anzi di più, fetish cioè di feticismo esasperato?

 

Ma neanche per sogno o, anzi, anche!

 

Per entrare nella lettura per me più verosimile, o comunque quella che preferisco, di questo splendido film, uno dei pochi capolavori del cinema mondiale, bisogna affidarsi ad un detto comune:

 se ti indicano la luna, non guardare il dito, e capovolgerlo:

 se ti sbattono sotto gli occhi un contenuto, guarda e metti a fuoco il contenitore

 

Il vero protagonista simbolico di Blue Movie non è il film porno che esso indubbiamente contiene, ma il contenitore, del suo bel colore blu!

Un altro protagonista del film non è il barattolo della Coca-Cola, con il suo bel colore rosso, ma il suo contenuto: il vuoto!

Le protagoniste del film non sono le splendide attrici, ma il vuoto della loro espressione “Come il culo di questa bambola”.

Il feticcio del film che ne fa un film certamente anche fetish non è la merda contenuta nei pacchetti di sigarette, ma il suo valore di mercato assolutamente nullo (fino alla “Merda di Artista” di Piero Manzoni (1961)), eppur scambiato per cibo. “Una sola sigaretta in cambio di due pacchetti di merda” frase che da sola meriterebbe il Nobel della letteratura.

La potenza espressiva del film non è nella drammaticità enfatizzata delle sue scene di violenza e di incubo, ma nella sua gelida immobilità, nella sua totale assenza di accadimenti, di situazioni che evolvono, di cose che cambiano. Silvia è pazza e resta pazza fino alla fine. Claudio idem e così gli altri.

Quando Silvia passa, verso la fine, dalla situazione di donna-oggetto a quella di donna-soggetto è incapace di godere di questo cambiamento di stato (non riesce a fare l’amore con Claudio). La donna emancipata, che è stata vittima per tutto il film di tutte le violenze possibili, che finalmente si è riappropriata del proprio corpo e del proprio futuro, si trova a sentirsi assolutamente incapace di “scopare” un uomo. Si, certo penseranno le lettrici, sappiamo che non è capovolgendo la situazione tra dominante e dominato che si addiviene alla libertà, ma, suggerisce il film, di certo si addiviene al nulla, che è mille volte peggio dell’essere dominati. Daniela, la modella, resasi conto della propria immobilità esistenziale ed emotiva e desiderosa di un qualsiasi cambiamento, si affida al suo carceriere, e persino nell’unico momento di possibile fuga dalla porta lasciata aperta, sceglie la schiavitù, il cibo.

Raccapricciante ma efficacissimo l’accostamento di questa scena alle immagini dei corpi nudi e straziati dalla fame degli ebrei della Shoah, sapendo come narrato dagli stessi sopravvissuti, come in quei momenti, l’unico pensiero sia il sopravvivere, a qualsiasi costo e quale devastazione psichica abbiano essi subito da spingere molti a non voler più essere liberi o aspirare, almeno sognare la libertà.

 Il sogno della libertà, quando si è condannati alla prigionia perenne, uccide più di qualsiasi tortura o privazione, perché ci fa sentire prigionieri per sempre, domani, e dopodomani e tra un mese e tra un anno, viceversa la fame è una realta dell’eterno oggi e che oggi bisogna saziare. E’ un pensiero unico, perennemente presente e sempre uguale a se stesso. E’ la fame che ha tenuto in vita i pochi sopravvissuti annullandone la coscienza del tempo e dell’improbabile domani, non il desiderio di libertà e dignità che invece ha ucciso, lasciandosi deperire, molti di loro.

 

Silvia, mentre strangola Claudio dice una cosa orribile nella sua apparente demenza “Ti ho già ucciso e posso ucciderti tutte le volte che voglio!” E’ la verità, nella scena precedente lo ha già colpito nel suo incubo privato, e lo ha sempre continuato a sentire come morto, non vitale, inutile, vuoto, e per quanto si accanisca nello strozzarlo con il cavo è lucidamente (e insieme psicoticamente) consapevole di poterlo continuare a uccidere all’infinito perché lui è un personaggio di un film, un personaggio vuoto di un film vuoto, riempito solo di sesso di violenza e di merda.

Del resto si può sempre continuare a uccidere non solo chi è immortale [8] ma anche chi non è mai nato, il personaggio di Claudio non è mai nato nella realtà fisica ma resterà a mio avviso immortale nella storia del cinema.

Però alla fine anche il personaggio si arrende alla sua inesistenza e heideggeraniamente la autentica con l’unica azione possibile, il suicidio. Solo uccidendosi si fornisce agli altri, ma ahimè non a se stessi, la prova inconfutabile della propria esistenza in vita, di essere stati vivi.

Vivi, anche se vuoti, vuoti di senso e di significato, vuoti di speranza come il bonzo che si immola, vuoti come i cadaveri vuotati dalla fame dei poveri ebrei buttati nella fossa comune, vuoti come i barattoli, inutilmente riempiti di feci ed urine.

Un altro forte valore metaforico delle feci, oltre alla loro evidente incommerciabilità, è da ricercarsi nella loro sincerità. La merda è solo merda, parte di scarto di nessun valore del nostro corpo, che al contrario si cura, si veste, si addobba e si costruisce, si scolpisce , si fotografa, si dipinge e si vende benissimo. La merda no. Non ci fai assolutamente niente, la puoi solo buttare fuori dal tuo corpo, nel cesso, nel mare [9].

Ecco la sincerità delle feci, la loro ingestibilità estetica o funzionale. La loro impossibilità a diventare oggetto, se non oggetto di un film fetish.

Claudio più volte esalta la sincerità dei barattoli e delle lattine, per il loro non essere oggetti, e li fotografa per la loro non propensione a diventare personaggi. Le nature morte dei secoli passati, altro non erano che specchi di emozioni, di chi li dipingeva e di chi li guardava. Le più brutte nature morte sono quelle piene di luci e di colori, quelle che aspirano a farsi attrici di un quadro, patetici e grotteschi come solo potrebbero essere dei fantasmi invisibili che si truccano.

La fotografia e il cinema sono anch’essi protagonisti di questo film. L’ossessione professionale, che non viene evidenziato se produca qualche utile economico al protagonista, è un modo altro per catturare le persone e gli oggetti, le donne-oggetto e gli oggetti-donne (le bamboline).

Queste ultime vengono ritagliate nella carta o messe sottovetro, mentre le prime, le donne reali recluse come geishe, come segretarie inutili, come modelle inespressive, come amanti impossibili. Durante il film invece gli altri film, quelli del vietnam e di Auschwitz, catturano nella loro crudezza documentaristica, persone e corpi trattati come oggetti, come schiavi o come simboli di protesta estrema.

Le fotografie, oltre a catturare, imprigionare, servono anche a congelare, immortalare le cose-persone ritratte. Ma quando si decide che il momento di uscire di scena è arrivato, non basta solo uccidere se stessi, si devono prima uccidere quei barattoli riempiti che sono le fotografie. Altrimenti esse potrebbero con la loro immortalità preservare un barlume di esistenza e negare ciò che più sta a cuore al protagonista: il vuoto assoluto, il nulla che autentica l’essere. Da notare che Leda e Silvia, non essendo state viste morte o uccise, si presume che siano ancora vive. Mi piace pensare che invece la loro morte avvenga proprio attraverso il rogo delle loro immagini, quasi un rito woodoo ad evocare sia la loro inutile esistenza, sia la follia del protagonista che non può uccidere le immagini mentali delle donne senza bruciarne le foto e spegnendo la propria mente con un proiettile.

 

Un'altra invisibile presenza o visibile assenza è quella dello sparo che mette fine all’inesistenza del protagonista e del fim stesso. La pistola c’è, il foro nella tempia anche, ma lo sparo non si sente. E non si sente perché lo si è sentito già all’inizio del film, quando il film era in realtà già finito, girato e montato, ma anche già nato morto, inutile e vuoto.

Lo stesso film, fatto di fotogrammi in sequenza, sequenza di foto, sequenze di spari ad ogni scatto della macchina fotografica, è un continuo sparare. Proiettando e guardando questo film si continua a sparare ad un morto che non può morire, il film stesso.

 

Unica pecca veniale che imputo più alle necessità di economicità della produzione, è quella del doppiaggio. Non si usava ancora la difficilissima presa diretta del suono, che necessita oltre che della tecnica microfonica soprattutto della dizione e dell’abilità recitativa. Ma non dimentichiamo che tre degli attori scelti sono stranieri, e comunque sarebbero stati doppiati in italiano. Il doppiaggio operato è veramente straziante e devastante nel suo assoluto dilettantismo. I doppiatori probabilmente erano gli stessi impiegati nei doppiaggi di film porno pagati dalla produzione specializzata nel genere, abilissimi nei sospiri e nei rantoli, ma incapaci di pronunciare una frase in italiano con la corretta espressione. E’ vero che le indicazioni del regista saranno state improntate ad una recitazione dei doppiatori il più asettica possibile, per sottolineare l’oggettivazione dei personaggi ed il loro vuoto interiore ma per essere asettici e vuoti bisogna avere qualcosa dentro da dire e sforzarsi di non dirla, qualcosa di cui vuotarsi, non basta essere stupidi e banali.  

 

Come al solito, per capire un Genio, quale è Cavallone, bisogna partecipare della genialità, quindi se volete condividere questa nostra qualità (o condanna), convincetevi di aver capito tutto quello che ho scritto. Anzi, meglio, scrivete anche voi la vostra personale ed inutile recensione!

 

CURIOSITA’

 

I nomi dei personaggi sono scambiati dai nomi delle attrici, Leda (Patrizia Funari in arte Dirce) prende il proprio nome da Leda Simonetti che assume nel personaggio quello di Daniela, preso dall’attrice Danielle Dugas, che invece si chiama Silvia. E’ lecito supporre che questo nome, non delle attrici, sia il nome di una donna molto cara a Cavallone, tenuta lontana dagli scomodi contenuti del film.

L’unico a recitare col proprio nome è il francese Claude, nel film Claudio. Del resto si sa, le donne sono oggetti interscambiabili, l’uomo no, è un soggetto responsabile e unico, lo si capisce dal fatto che raramente va in bagno insieme ad altri uomini come invece fanno le donne. Oppure, forse è solo un soprammobile di una qualche misteriosa utilità, fate voi.

 

Giovedì, 31 gennaio 2008

 

 


 

[1] Che sia una Innocenti e non una Austin o una Morris, lo si desume dal volante a sinistra e gli interni curati. Che sia una Cooper dal tettuccio nero e dal volante sportivo, che sia del ’74 perché il film è del ’78 e la Innocenti cessa la produzione di Mini su licenza inglese nel ’74. Del resto a me non me ne frega niente, perché è una macchina che non amo, per la sua forma tozza, grassa e corta. Immagino, pur non avendola mai guidata e per conoscenze altrui e per forma e aderenza della scocca al suolo, che abbia avuto un’ottima tenuta di strada. Ma quello che me la fa odiare è la sua attuale resurrezione, seguita a quella dell’antipatico Maggiolino wolkswagen e dalla finta ‘500 fiat. Tutto questo ripescare nel passato morto e sepolto, proprio di una cultura necrofila come la nostra, che per guardare al futuro riesuma il passato, e con una mano di vernice lo spaccia per nuovo. Mi dispiace se gli estimatori delle tre vetturette citate si saranno irrigiditi a tal punto da smettere di leggere questa recensione. Mi dispiace per loro ovviamente, non per me. Se avete una di queste automobiline da collezione MiniMotor 1:1 in garage un solo consiglio: dategli fuoco!

[2] Trattasi, per i lettori nati negli anni 70-80 e segg., di un formato di nastro magnetico in cassetta diverso dalle ancora esistenti musicassette o tape-deck o ancor meglio compact-cassette. Permettevano l’ascolto di 8 tracce monofoniche in sequenza, o 4 programmi stereo, da cui l’incongruenza del nome che sarebbe dovuta essere “Stereo4” oppure “Mono8”. Ma si sa, melius abundare

[3] in quegli anni immediatamente seguenti al film “La stangata” della coppia Newman - Redford, molto di moda.

[4] Dagli inconfondibili colori rosso e bianco, a beneficio dei lettori non fumatori e non appassionati di Formula 1, dove negli anni scorsi quella della McLaren era l’unica pubblicità occulta permessa.

[5] Nelle scene che si svolgono all’interno dell’abitazione, sovrastante lo studio fotografico, la musica è sempre di Bach, utilizzata per l’effetto claustrofobico del contrappunto, che incatena l’ascolto all’ineluttabilità dei suoi canoni. Un serpente che si mangia la coda, ma con estremo gusto e compiacimento.

[6] Macchie sono le immagini che inframezzano i telegiornali di Emilio Fede, suppongo non solo i suoi, per estensione chiamo così anche gli inserti, è questo il termine tecnico, troppo brevi per costituire un azione parallela indipendente. Hanno infatti la funzione di evocare dei flash di memoria o di follia.

[7] Si è fatto così per inventare Dio.

[8] Come gli inesistenti lettori dei miei scritti sanno bene il mio sport preferito è uccidere Dio.

[9] Oggi siamo costretti a purgarla dei colibatteri, per non ritrovarcela nel pesce domani. Ma non è certo un intervento di bellezza o di profumo.