SWEET SIXTEEN (GB, 2002, 101) di Ken Loach

-Volere è potere-. Ma non sempre, anzi quasi mai.

Il mondo desiderato, sia esso quello di un potere illimitato e di una vita eterna infusa di conoscenza divina o più semplicemente quello di un figlio di poter dare alla propria madre in galera per spaccio una vita appena decente in un prefabbricato, si scontra sempre con due condizioni umane incontrovertibili: l'eredità della fortuna/sfortuna nella quale nasciamo e la dipendenza dagli altri, l'essere comunque sempre parte di una tubatura di relazioni (http://www.facebook.com/note.php?note_id=160319273992035).

Questi a mio avviso i due temi classici ottimamente concatenati dall'Autore in questo film.

La prima condanna al protagonista quasi sedicenne è data dalla nascita in una famiglia povera e segnata dalla tossicodipendenza, dove non c'è più un padre ma solo un amante senza scrupoli della madre ed una sorella ragazza-madre che riesce a gioire di un part-time in un call-center e vuol caricarsi tutte le responsabilità evitate dalla madre che odia profondamente. Vivono tutti, eccetto la madre carcerata, nella casa del nonno, altro farabbutto violento con i nipoti.

Questa condanna “natale” divide i due figli nelle opposte strade: l'accettazione della “sfortuna” e il confidare in un futuro onesto ma di stenti per la sorella ed il suo piccolo, ed invece la ribellione del fratello ai soprusi mediante altri soprusi e quindi l'accettazione della violenza e della delinquenza come unico mezzo per ottenere il nobile fine di dar una “nuova vita” alla madre quando esce dal carcere e alla sorella ed il suo piccolo, ricostruire una famiglia sfregiata dalla sorte.

L'essere in Gran Bretagna nel secondo millennio è del tutto incidentale, poteva essere ambientato nei bassi napoletani di due secoli fa e non sarebbe cambiato nulla. E' un tema metastorico, quello classico della politica di ogni tempo: l'ereditarietà della condizione sociale.

Ma questo film associa ad esso intrecciandone la trama un altro classicissimo tema, quello della fedeltà e del tradimento.

Il ragazzo protagonista è mosso dall'amore per la madre e rimproverato dalla sorella per il disamore verso se stesso (“Non puoi essere responsabile di altri se non riesci ad esserlo di te stesso”). Questa motivazione familiare lo spinge prima a tradire il nonno e il “patrigno” per non rischiare di compromettere ulteriormente la madre nello spaccio in carcere. Poi si trova ad essere costretto ad accettare di tradire o comunque abbandonare il proprio caro amico per entrare nel giro che conta dello spaccio. La stessa prova di affiliazione è un tradimento doppio (la commissione di un omicidio evitato all'ultimo momento come prova di fedeltà). L'ultimo straziante tradimento è proprio quello della madre, che una volta uscita e regalatole un più che dignitoso appartamento, pensa bene di tornare tra le braccia del delinquente che probabilmente le ha causato l'arresto precedente. Viene a cadere, alla fine del film, il nobile fine per raggiungere il quale il ragazzo aveva accettato gli spregevoli mezzi.

Solo e senza più un senso, si ritrova ad essere ricercato dalla polizia per l'accoltellamento del “patrigno”.


 

L'Autore pare ricordarci, con una sceneggiatura di ottimo impianto classico, scorrevole nel montaggio ed impeccabile in tutto il resto, che la nostra vita è segnata dai nostri natali e che per realizzare i nostri desideri abbiamo bisogno comunque degli altri, ai quali affidiamo parte delle nostre speranze, i quali siamo pronti a nostra volta a tradire e ad essere traditi, per i quali alla fine siamo disposti a tutto, ma che la nostra volontà da sola non potrà mai far si che siano come noi li vorremmo.

E' una tragedia, è la nostra comune classicissima tragedia.